Intervista a Vito Bucciarelli
di Andrea Taddei - L’Aquila 1995
Siamo
all’Angelus Novus io e Vito Bucciarelli. L’opera é
tutta da costruire. Il primo approccio é con lo spazio vuoto, lo
spazio voltato. La scala é il mezzo per giungere al centro, poi
... l’impalcatura.
La scelta tra muri, pavimenti, nicchie, ecc, verte proprio sullo spazio
più inavvicinabile, ma anche prossimo all’idea dell’infinito,
lo zenit del luogo: la volta .
ANDREA TADDEI
Da quale distanza preferisci osservare un’ opera d’arte ?
VITO BUCCIARELLI
Di solito é con la capacità della mia messa a fuoco che
devo fare i conti per stabilire la distanza dell’ oggetto.
Comunque voglio raccogliere la tua domanda come una provocazione sapiente,
e ti dico: tutta la cultura rinascimentale ha tenuto in piedi un sistema
che falsificava il rapporto con il mondo attraverso una ricostruzione
del vedere. (Illusione prospettica ). In
questa struttura illusoria, “distanza” è riferito allo
spazio che intercorre dal punto di vista al piano di rappresentazione.
La consapevolezza del rapporto di prossimità e di aderenza che
noi viviamo col nostro pianeta e nel cosmo, mi ha portato a scoprire che
l’oggetto interagisce con il mio sguardo ed insieme creano un punto
di appoggio . Così come il riccio marino interagendo sui suoi punti
di appoggio che sono i suoi aghi, si muove sul fondo del mare, il mio
corpo vede attraverso l’interagire del mio sguardo con gli oggetti
e poggia contemporaneamente su di una miriade di punti dislocati diversamente
nello spazio .
Vito costruisce l’opera per gradi con verifiche
veloci. Segna sulla volta più punti fissi, come se ponesse le coordinate
sostanziali dell’impianto. Smonta dall’impalcatura, con fare
sicuro clicca l’interruttore ed oscura lo spazio. Il buio che precede
l’opera predispone alla comprensione della “assenza”,
sfuggono i principi ordinatori che rendono presente il concetto di architettura,
si rompe la visione monolitica, rappresentativa, si apre irrimediabilmente
il conflitto tra l’autodescrizione del costruito, ed il racconto
a termine dell’opera che scardina in quella porzione di tempo il
dominio fisico e territoriale dell’Architettura.
ANDREA
TADDEI
Nelle tue esperienze Agravitazionali quanta importanza ha lo sguardo?
VITO BUCCIARELLI
Lo sguardo é stato il veicolo che ha collegato la mia infanzia
alle cose e al luogo dove sono nato . Una località che si eleva
di 114 m. sul livello delle acque, un promontorio che mi ha messo in contatto
visivo con l’ orizzonte, oltre la distesa del mare davanti e sotto
i miei occhi, mi ha permesso di penetrare con l’ azzurro trasparente
del cielo.
Vivere in questo luogo mi faceva pensare di essere più a contatto
con il cielo, le stelle, la luna e gli abitanti dello spazio aereo: le
rondini . Tutto questo mi dava una grande emozione, mi proiettava fuori,
oltre i confini di ciò che stava davanti. Un’altro luogo
con il quale il mio sguardo mi ha messo in contatto in un modo sorprendente
è l’ interno del Duomo di Firenze, il collegamento col grande
e imponente affresco a Giovanni Acuto, la struttura architettonica immensa
del duomo e la piccola porta d’ingresso laterale in fondo a sinistra
mi hanno dato la consapevolezza della distanza fisica che viviamo da quei
luoghi, monumenti costruiti come dimora degli “Assenti”.
Il pensiero e l’opera Agravitazionale nascono anche da questi sguardi,
ma é il suo SGUARDO che rende sicura la mia ricerca, uno SGUARDO
che osserva oltre l’ azzurro, l’ orizzonte ricurvo del pianeta.
Vito
é al centro dell’impalcatura luminosa, iI fruscio delle scarpe
sul pavimento di cotto sconnesso, identifica la sua posizione.
L’opera respira, prendono corpo i suoi primi tratti: “gli
occhi dell’opera”.Il pensiero si acuisce con il buio, si eterizza
il corpo, l’opera fluttua nello spazio, intuisce il disegno della
nuova, prossima, geografia virtuale della terra.
Contamina i terreni della percezione architettonica, mette in crisi il
concetto stesso di spazio costruito. Supera e sconfina oltre i piani tattili
delle imponenti opere murarie, affiora e trasuda dai margini fisici che
ne delimitano la spazialità.
ANDREA TADDEI
“Agravitazionale” opera uno spaesamento nel passaggio da oggetto
a forma, tra pensiero e immagine, in un tempo luce-buio ?
VITO BUCCIARELLI
L’opera Agravitazionale vive già lo spaesamento. Cercare
di definire l’attuale profilo dell’opera non significa mettere
in evidenza i punti di contatto col passato, ma rimuovere sostanzialmente
le differenze. Il rifiuto e la distanza da una sistematica ripetitività
per entrare in un sistema di presa dell’immaginario: la mobilità
del punto di vista. Il buio e la luce interagiscono in un corto circuito
continuo, la visione aprospettica, omogenea, non é sottoposta a
nessuna delle regole che stabilivano le coordinate dell’alto e del
basso, della destra e della sinistra: la “ forma” che prende
risalto si compie annientandosi. 
La sensazione è quella che l’opera di Vito diventi, in quel
suo trasformarsi , “la sorgente” d’informazione. Io
sotto l’impalcatura, osservo. Lo spazio tra me e Vito costituisce
“il canale” attraverso cui passa “ il messaggio”
, canale dinamico.
Io sotto l’impalcatura, sento. Vengo investito dalle informazioni.
Io: “ il fruitore”.
ANDREA TADDEI
Quanto influisce la scienza nella tua ricerca artistica?
VITO BUCCIARELLI
Marcel Duchamp ha tolto l’oggetto dal suo contesto originale e dal
suo uso, rendendolo in un contesto diverso un’opera d’arte.
La scienza, ha tolto l’uomo dal suo habitat e lo ha trasferito in
una “località” altra. Questi due momenti diversi tra
loro per linguaggio e fini, sono però uniti da uno stesso desiderio,
quello di trasferire, modificare una condizione acquisita all’origine,
dalla nascita.
La presa ed il possesso dello spazio aereo da parte dell’uomo attraverso
la fuoriuscita dalla navicella spaziale, ha dato una maggiore certezza
alla possibilità di dilatare l’antico habitat naturale del
terrestre.
Il pianeta é ormai un immenso contenitore pronto a scoppiare (
come nel film “Zabriskie point”, di Michelangelo Antonioni).
L’arte come altri sistemi di produzione ha contribuito ad aumentare
le scorie di questo contenitore.
La ricerca Agravitazionale riconosce alla “non materia”
la capacità di esercitare una funzione fondamentale nell’equilibrio
cosmico. Si tratta di un mondo che sta al di là delle cose, dove
la visionarietà prende forma e lo stupore e la vertigine ti sorprendono
venendoti incontro.
Vito chiude la stanza, si allontana, io lo seguo. Sostiamo nella corte
colonnata. L’evento artistico nell’antro del palazzo settecentesco,
da poco partorito, è ancora palpitante. Forse sbilanciati verso
un’avventura dove il “vedere”, é il “vedersi”,
il misurare é il misurarsi con la nostra instabilità corporea,
che attratta si mescola al buio, ci incamminiamo in silenzio in una città
imbalsamata nella sua storia. Brusii sordi della gente e rumori antichi,
ci accompagnano attraverso i paesaggi storici narrati dalle “monumentali
architetture”.
ANDREA TADDEI
L’opera agravitazionale nell’ Angelus Novus opera una smaterializzazione
della materia architettonica?
VITO BUCCIARELLI
La struttura dell’opera agravitazionale nell’Angelus Novus
crea una sua logica di spazio. La “forma” (opera) che sovrasta
il piano del calpestio ha una struttura autonoma e si discosta da quella
chiaramente intellegibile della “stanza”.
Il punto è l’unità di grandezza, la sua moltiplicazione
è l’apertura planetaria illimitatamente cosmica. E’
armonicamente legata a se stessa, alla formula che la contiene, nel suo
essere (spazio) e nel suo divenire, una “forma” che si compie
annientandosi.
Il ciclo produttivo dell’opera é compiuto,
Vito é svuotato, liberato.
Girovaghiamo: appare in tutta la sua vastità la piazza del Duomo,
luogo della centralità urbana. Ricomposta in sequenza da brani
edilizi “ibridi”, ci informa che la città, l’altra,
paradossalmente esprime qui la sua contemporaneità. Segnali, impulsi
la attraversano, siamo investiti qui come altrove dai rumori di fondo
del mondo. 
ANDREA TADDEI
L’opera ha una sua dipendenza dal tempo?
L’opera nasce da una attesa?
VITO BUCCIARELLI
Il punto come unità di grandezza si pone come visione illimitatamente
cosmica.
Questa nuova “forma” nasce dalla caduta di una sistematica
ripetitività di un modello meccanico, uno stato di dominio secolare
che l’arte ha nel suo sistema, replicandosi e conservandosi in depositi
dove continua sconsideratamente nella sua produzione distorta. La frantumazione
dell’io e l’avvento dell’elettronica ci pone di fronte
ad una nuova collocazione nel sistema cosmico.
Da questa nuova postazione “l’attesa e il tempo” sono
contenuti nello “sguardo” dell’opera come memoria antropologica.
Tempo ed attesa appartengono ad uno stato di equilibrio e di dominio speculare
che l’arte ha nel suo sistema, e concepisce termini quali: conquista,
nostalgia, mercato, replicati e conservati in depositi dove continua sconsideratamente
nella sua produzione distorta.
Siamo risucchiati da una ripida discesa, in fondo Porta
Rivera.
Diagonalmente, incassata nella terra, coronata da alberi e vigneti, si
dischiude verso “l’infinito” lo spazio introverso della
fontana delle 99 cannelle.
L’acqua coniuga ed armonizza lo spazio conchiuso.
Fermi, circoscritti, perimetrati dalle mura policrome, sospesi nel suono
delle 99 fontane, comprendiamo che abbiamo varcato la soglia di un “luogo”
che esiliato dalla “Architettura”, si predispone ad assume
la veste di territorio artistico. Immersi in una atmosfera atemporale,
avvolti dall’azione trasmigratrice dell’opera agravitazionale,
dal suo riverbero, prediamo coscienza che siamo giunti alla conclusione
del viaggio ideativo dell’opera.
ANDREA TADDEI
La fontana delle 99 cannelle dell’Aquila, nella sua peculiarità
compositiva, fa scattare analogie con la perdita del centro annunciata
e posta in essere dall’opera agravitazionale?
VITO BUCCIARELLI
Lo spazio delle “99 cannelle” é meravigliosamente dissociato
da un sistema di costruzione architettonica che prevede una visione lineare
prospettica . Quest’opera contiene una serie di dati che mi hanno
incuriosito. 
Primo: la visione unitaria é di tipo aereo, direi a volo di uccello,
tant’è che é proprio dal di fuori della sua struttura
che se ne conosce la visione compatta.
Secondo: dal punto di vista esterno, si entra in contatto con un centro
fissato all’interno dello spazio che ci permette di ruotare di 360°
all’interno dell’opera.
Questa possibilità di osservazione che mette in relazione la terra
e l’aria attraverso un rimando di punti, ne definisce, come per
magia il volume : una forma aprospettica.
L’ultima immagine che ricordo di quella intervista,
é quella di Vito come attore, centro di uno scenario di pianta
poligonale senza prospettiva, dove coesistono pieno (acqua della fontana)
e vuoto architettonico (che la contiene), dove le pietre policromi casuali
rendono i muri vibratili. Vito è lì, contempla, conscio
che la antica, serena sospensione di quel luogo materico é distante
dalla sospensione della volta dell’Angelus Novus, ma legato ad essa
da una parentela manifestata (seppure con diversi strumenti disciplinari)
attraverso la ricerca della destrutturazione dello spazio canonico in
Architettura.
CONCLUSIONI
L’opera predisposta all’interno dello spazio espositivo, Angelus
Novus, sostanziata da una struttura in grado di ricreare una logica spaziale
a se stante, fatta di vita propria, tende a costituire solo in apparenza
una biunivocità ambientale con i referenti materici dell’architettura,
mantiene la neutrale distanza dal contenitore, attraverso il quale si
enuncia, facendo emergere la possibilità di un’azione decostruttiva
dell’architettura.
L’impegno di Bucciarelli, in questo contesto, e quello di andare
a dimostrare l’assoluta carenza di comunicatività contemporanea
della “forma storica” della architettura di palazzo quale
autorappresentazione della evoluzione ciclica dello scenario tipologico.
Nel suo nobile isolamento epocale, vive come anacronistica muta presenza,
all’interno della relazione, tra le nuove funzioni dell’abitare
e chi ne fruisce.
La struttura voltata della galleria dell’Angelus Novus riconducibile
intorno al 1600, non ha relazioni progettuali con il nostro presente architettonico,
in quanto essa stessa momento terminale della rappresentazione materica
e della messa in atto del controllo della cognizione spaziale acquisita
in quel periodo, attraverso l’intervento Agravitazionale entra in
relazione con il nostro presente scegliendo la via analitica della scomposizione,
azzerando attraverso il buio quel sedimento storico che contestualizza
la composizione spaziale, la sua forma.
Trovo che l’impianto teorico dell’opera di Vito Bucciarelli
ponga l’attenzione alla esemplificazione del rapporto biunivoco
vuoto/pieno che storicamente ha dato luogo e forma all’Architettura,
concependo già nelle primordiali abitazioni quella visione della
loro inscidibilità, incarnata prima nelle impalcature strutturali,
poi nella canonizzazione del “tipo”.
La “sospensione” momentanea nel buio dei “diaframmi”
materici (murari), aliena l’interazione uomo/spazio e riconfina
la stanza in una condizione sospesa di volume, all’interno del quale
sono enunciati i punti di percezione e di fruizione che consentono al
fruitore il “viaggio” verso l’infinito concettuale.
In questo senso l’opera “esemplificazione” ci porta
in viaggio nomade, in quanto ci spoglia di riferimenti culturalmente radicati,
riconciliandoci con i luoghi della memoria, con le architetture esiliate,
perdute nella nostra coscienza, quelle che hanno nutrito l’impalcatura
visionaria della nostra infanzia.
Con l’Arte Agravitazionale ed in particolare con l’intervento
sulla crosta muraria della volta della Galleria Angelus Novus Bucciarelli
pone il problema non più della traccia della tradizione ma della
frattura e del limite; non del perpetuarsi delle alchimie della tradizione
espressiva, ma quello delle trasformazioni, che si pongono come fondazione
e rinnovamento delle fondazioni.
L’operazione artistica così formulata visualizza la forma
“pensiero/opera”, concependola per mezzo del ribaltamento
del rituale percorso fruizionale dell’arte. 
L’opera si muove, va (materialmente) verso il fruitore; indica il
percorso verso le viscere della coscienza inesplorata, consapevole della
certezza che esiste un rigoroso sistema di ritorno.
Emerge dal buio, si da, si concede amplificando le recondite incertezze,
apre la vista sulla mappa delle “pulsioni” che identificano
la temporale precarietà del “ segno/luce”, rimette
in gioco nuovi processi ideativi, troppo spesso emarginati dal confrontarsi
con i diversi e consolidati sistemi di conoscenza. Questa ricerca appare
quale ultima evoluzione delle categorie degli interventi artistici che
sposano l’impianto spaziale dell’architettura, testimonedei
codici e depositario dei canoni che muovono le convenzioni umane.
Quelle architetture dalla cui lettura, traspaiono le cadute,
gli squilibri, l’esaltazione della civiltà, sono in questo
contesto un fondo scenico muto, celato dietro le ansie del buio, dietro
le ricerche della cristallina certezza dello spigolo, che chiude la stanza,
che definisce temporalmente il sapere. Sulle contraddizioni: luce diurna,
luce notturna agravitaziona le, appare chiaro in questa manifesta contrapposizione
tra le distinte sfere del vivere giorno/notte, che la luce diurna agisce
esaltando l’eterogeneità del mondo, la luce pregnante dell’opera
agravitazionale è un tutt’uno con il buio, é immersa
nel buio, é complementare ad esso, appare non il contrario del
buio, ma la sua anima remota e come tale deputata a placare i contrasti.
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